giovedì 16 dicembre 2010

Fai buon viaggio...


Proprio io.
Proprio io che delle parole (scritte) faccio il mio stile di vita, fra lavoro e passione.
Proprio io che non passa giorno senza sporcare una pagina bianca, oggi, forse, non riesco a scrivere quello che vorrei.
Un "mi mancherai" è troppo poco, un "tanto ci sentiremo" troppo banale,
un "ti ricorderò sempre" troppo melodrammatico.
Per questo ho deciso di scrivere come mi viene: di pancia, con le imposte chiuse, i capelli legati e un biscotto al cioccolato.
Di te e per te.
E allora scrivo che mi mancherai, perché la vita è fatta di momenti vissuti, e noi, li abbiamo vissuti proprio tutti.
Dal pianto al riso, dal dolore piccolo e grande alle gioie immense come ieri, dai silenzi condivisi alle chiacchierate fino alle cinque del mattino, dallo shopping rigorosamente sotto la pioggia battente alle giornate passate in casa, dalle litigate (perché ci sono state anche quelle) alle complicità che ci hanno fatto crescere e amare la vita.
Da qualche parte ho scritto che "una partenza significa aspettare."
Come quando, passando per la stazione, senti il fischio del treno e il rumore delle rotaie ti entra nella testa e nel cuore, perché per ogni persona che parte ce n'è una che rimane.
Come uno strappo.
Tu parti.
Io rimango.
Qualcuno mi ha insegnato che amore fa rima con libertà e che libertà combacia con verità e bellezza.
Tu mi hai dato tutto questo, ogni giorno di più.
Perchè ogni giorno è stato come aprire un pacco regalo senza buttare via la carta.
Quella carta mi è servita per scrivere la storia di un'amicizia che nessuno ha mai raccontato, e ad ogni pagina vorrei fare un orecchio, per ricordarmi tutto ciò che abbiamo vissuto ed imparato in tutti questi anni.
Perché c'eri tu ogni volta che c'ero io.
E c'ero io ogni volta che c'eri tu.
Ieri non è stato solo il tuo traguardo, ma anche il mio.
E la tua partenza, sarà anche la mia.
Perché un pezzetto di noi finisce sempre nel cuore delle persone che amiamo.
E le accompagna, dovunque andranno.
Una partenza significa anche ricordare e sperare.
Ricordare chi sale su quel treno portandosi dietro il rumore delle rotaie.
E sperare che quello stesso treno le riporti indietro, un giorno, con lo stesso fischio e lo stesso rumore che ti entra nella testa e nel cuore.
E allora fai buon viaggio, amica mia...e ricordati sempre che in te hai un pezzetto di me.
Non puoi non tornare...non potrei vivere senza.

domenica 12 dicembre 2010

Chiamami con il nome che mi hai dato...


Abbiamo bisogno di dare alle cose il proprio nome.
Se mangiamo il pane, abbiamo bisogno di sapere che quello è pane.
Se prendiamo una macchina, che quella è una macchina.
Se ci confidiamo con un amico, che quello è un amico.
Quando un bambino impara a parlare, apprende che quello si chiama tavolo, quello albero, quello pupazzo.
E quelli si chiamano mamma e papà.
Così facendo, impara anche a riconoscere le cose che lui chiama con il loro nome.
E apprende che se chiami, il più delle volte, loro rispondono.
Quando poi quel bambino cresce, capisce che anche i sentimenti hanno un nome: si chiamano amore, amicizia, risentimento, speranza, illusione, gioia, paura.
Sono quelli che ha imparato dalla vita, dentro e fuori dalla famiglia e, non di meno, dentro e fuori da se stesso.
Ma quando, diventando uomini e donne, non riusciamo a dare un nome a quello che proviamo, è come se volessimo mettere in un angolo quei sentimenti e i momenti vissuti che ci legano ad essi, come a coprirli con un telone bianco, come si fa con i mobili che vogliamo conservare, in attesa di ritornare ad abitarli.
La casa fatta di quei mobili rimane sempre la nostra, anche se sono coperti e anche se non è proprio come noi desideravamo che fosse: anche se non ha la scala a chiocciola, la porta scorrevole, la cucina con l'isola, il giardino e la staccionata bianca.
Per il solo fatto che l'abbiamo abitata e la abitiamo ancora, è nostra, perché un pezzetto di noi finisce sempre nelle cose che viviamo, sia che ci appartengano e sia che appartengano a chi ha sfiorato la nostra vita, anche e solo per un attimo.
Così come quei sentimenti senza nome, che tanto ci fanno paura, perché non sappiamo come chiamarli e loro, non sanno come risponderci, lasciandoci in un tempo che abbiamo imparato a chiamare in nostro soccorso sin da piccoli, quando cadevamo a terra e ci sbucciavamo un ginocchio urlando a nostra madre di venirci incontro, perché quella sbucciatura bruciava troppo: è proprio in quei momenti che abbiamo imparato a chiamare quel tempo attesa e a comprendere il suo valore.
Aspettare.
Che qualcuno venga in nostro aiuto, ci prenda in braccio e ci sussurri: non è niente, non avere paura, ora passa tutto.
Ma quando qualcosa ci brucia dentro e non sappiamo come chiamarla per poi vivere nell'attesa che ci risponda, la paura non passa e diventa parte di noi.
Per questo abbiamo bisogno di dare un nome, perché quelle sono le cose che restano: i sentimenti come le persone e come i momenti vissuti, come i sogni e come i ricordi.
E' questa la pasta di cui è fatta la vita.
E abbiamo bisogno di poterla chiamare, tutta intera, per riconoscerla nostra e di nessun altro.
In un esercizio dei miei laboratori di scrittura espressiva, chiedo a chi partecipa di dare un titolo alla propria vita, che sappia contenere il valore e l'unicità della stessa.
Quando veniamo al mondo, qualcuno ci assegna un nome che noi ci portiamo addosso fino alla fine dei nostri giorni, anche nei ricordi di chi ci sfiora e nelle vite di chi rimane dopo di noi.
Ma anche la nostra vita ha bisogno di essere chiamata per darci la possibilità di vivere nell'attesa che lei ci risponda e ci dica: non è niente, non avere paura, ora passa tutto.
Perché la vita è come una madre: ci ama anche quando sbaglia e quando siamo noi a farlo, e perdona tutte le nostre fughe, anche se non lo ammette o noi non lo ammettiamo.
Per questo abbiamo bisogno di chiamarla e di riconoscerla: senza, saremmo orfani senza sapere di esserlo.
E avremmo paura, senza sapere cosa sia questa paura.